Il bel vangelo

Questa sezione intitolata “Belvangelo” indica l’attenzione  alla dimensione dell’annuncio della Parola attraverso l’estetica delle immagini . Perché la funzione estetica è dimensione storica integrante dell’annuncio. In questo file vengono raccolte una serie di immagini utilizzate a commento dei Vangeli domenicali. Altre immagini e testi sono reperibili  presso la sezione documenti. Ogni immagine porta il relativo commento estetico e si riferisce alla domenica del tempo ordinario a cui si riferisce l’opera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

vangelo

Gesù guarisce la suocera di Pietro, affresco bizantino, chiesa di Mistra (Grecia).

Presentiamo un interessante affresco bizantino, stile non raro neppure in talune chiese del Triveneto e reiterato fino al medioevo avanzato. Il racconto della guarigione della suocera di Pietro è presentato mediante ricca indagine psicologica. Il brano pittorico segue pedissequo la sequenza evangelica: la casa, i discepoli Giacomo e Giovanni a sinistra, Simone e Gesù vicini alla suocera. Betsaida dista di poco dalla sinagoga di Cafarnao ove, nel vangelo della scorsa settimana, Gesù aveva liberato un ossesso. La suocera di Simone è qui raffigurata come un’anziana, coricata a letto in in preda alla febbre, e il volto rende l’idea di una grande debilitazione. Pietro la presenta a Gesù, indicandola con la mano destra, Gesù invece con la mano prende la mano dell’ammalata e la solleva. Interessante il contatto fisico di Gesù con la malattia. Il suo volto esprime compassione e umiltà. Tutto avviene con la massima discrezione e nel nascosto di una stanza qualunque, in una casa come tante altre. La donna è quasi completamente avvolta dagli abiti: in tutto ciò una sorta di allusione al mistero della morte e della resurrezione. Pietro da buon apprendista, segue l’evento con intensa e attenta partecipazione.

 

SESTA DOMENICA ORDINARIA B

gesù e il lebbroso

Commento all’immagine: Gesù guarisce un lebbroso,     riduz. da icona, Novgorod, sec. XVI.

L’icona raffigura in maniera sintetica il momento culminante del segno narrato nel vangelo di Marco. Questo episodio fa da transizione tra le prime scene, dove non vi è contrasto, non vi sono scontri, contrapposizioni, resistenze, ed il resto del vangelo, improntato a una forte drammaticità che andrà accentuandosi in un crescendo progressivo. Gli atti che Gesù compie provocheranno dissenso o scandalo (liberazione dell’indemoniato e guarigione della suocera di Pietro in un giorno di sabato, insegnamento innovativo, trasgressione della Legge nel toccare il lebbroso). E dunque in questa immagine vi è già drammaticità, tensione, e non solo per questo corpo completamente avvolto nel manto nero (della morte), ma soprattutto perché Gesù decide di toccarlo. L’icona insiste su questo gesto, raffigurando con intensità il gesto di Gesù di avvicinare il lebbroso e di sollevarlo prendendolo per il braccio. All’invocazione del malato, inginocchiato a una certa distanza, risponde il gesto di avvicinarsi-piegarsi-toccare-prendere-sollevare-guarire. I contrasti sociali-religiosi, vengono descritti da Marco nel descrivere quanto accaduto. Il lebbroso era immondo per gli ebrei: Gesù, pieno di compassione, è turbato dalla vista di quell’uomo malato. E lo guarisce. Ma, più avanti, nel versetto 43, la traduzione letterale del testo greco suona: “e adiratosi, lo cacciò via”. Quindi prima Gesù è tutto compassionevole, pietoso e amorevole, poi è adirato e severo, caccia via il lebbroso. Al di là del contrasto, notiamo il comportamento veramente e totalmente umano di Gesù, anche mentre sta compiendo un gesto divino. Solo in Marco Gesù ha intense reazioni, emozioni, comportamenti come ognuno di noi: si commuove, si turba, si adira. Nei vangeli successivi l’umanità verrà meno accentuata per far risaltare maggiormente la divinità del Cristo. Un’altra contraddizione nel comportamento di Gesù sta nel comando al lebbroso di rispettare le regole della Legge, presentandosi al sacerdote per la constatazione della guarigione ed il sacrificio, e nell’infrangere poi egli stesso quelle regole, toccando un immondo. Un altro contrasto apparente è contenuto nel versetto 44, dove Gesù ordina al lebbroso di non dir nulla a nessuno, ma gli ordina pure di presentarsi al sacerdote presentando l’offerta prevista, “a testimonianza per loro”. È vero, si può intendere che il lebbroso deve soltanto presentare l’offerta, ma se i sacerdoti lo interrogheranno?

 

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA B

low Le tentazioni del viandante-1943 copia

Pietro ANNIGONI, (1901-1988) “Le tentazioni”, (o “la tentazione del viaggiatore) 1943,

tempera grassa su tela, cm 50×40.

 

Pietro Annigoni racconta con un linguaggio pittorico rapido, densamente realistico e contemporaneo, l’esperienza della tentazione. Il contesto idilliaco di un cammino montano, apparentemente comune alla vicenda di ogni persona, suggerisce l’episodio della tentazione come un fatto totalmente interiore. Il viandante si siede su un tronco spezzato e contempla l’orizzonte. Può essere esperienza di qualsiasi persona che, come Gesù, scelga di ricavarsi dei tempi per ascoltare sé stesso in solitudine. Sembrerebbe un momento estremamente pacificante. È proprio il distacco, il momentaneo allontanamento dalla quotidiano, dall’abitudine, che fa emergere quanto è generalmente nascosto sotto le pieghe del quotidiano. E il soggetto diventa spettatore dello scenario interiore: le illusioni, gli inganni, della vita. Lo zaino appoggiato e il bastone in mano indicano il recupero di questa dimensione di esodo, condizione per riacquistare la libertà sulle cose e sulle dipendenze.

 

SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA B

Raffaello Trasfigurazione Pinacoteca Vaticana

Trasfigurazione di Gesù, Raffaello Sanzio, 1518-1520, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano. 

 

LA TRASFIGURAZIONE in Raffaello Sanzio

Di Timothy Verdon

La più celebre raffigurazione di questo evento è la grande pala iniziata da Raffaello Sanzio e ultimata da collaboratori dopo la morte del maestro nel 1520. Nella zona alta, eseguita interamente da Raffaello, Cristo è rappresentato in preghiera estatica, con le mani alzate nel gesto antico, che qui allude anche alla croce annunciata otto giorni prima; appare poi tra Mosé ed Elia, rappresentanti della Legge e dei Profeti, con le vesti e il volto trasfigurati. Il Salvatore cambia d’aspetto — viene «trasfigurato» cioè — perché, mentre interroga l’antica legislazione e la tradizione profetica d’Israele, comprende che davvero il messia dovrà soffrire e morire: il racconto lucano dell’evento specifica l’argomento della conversazione dei tre, «l’esodo che stava per compiersi a Gerusalemme», cioè la morte di Gesù. La sua preghiera consiste in un atto d’interiore accettazione, ed è allora che dalla nube risuona la voce del Padre che lo riconosce come l’amato Figlio. Nella parte inferiore della composizione di Raffaello viene illustrato invece l’episodio neotestamentario che segue la Trasfigurazione, la guarigione di un ragazzo epilettico. Il padre del giovinetto l’aveva condotto ai discepoli di Gesù, chiedendo che scacciassero il demonio che sin dall’infanzia aveva tormentato il ragazzo, rischiando di ucciderlo, ma i discepoli non ne erano capaci: è la scena illustrata nel dipinto, con a destra il giovane tenuto dal padre e i discepoli gesticolanti a sinistra. Sceso dal monte, Gesù guarirà il ragazzo e lo restituirà al padre, dopo essersi indignato per l’incredulità dei suoi discepoli, che non erano stati capaci di compiere il miracolo (Luca, 9, 41); così anche nella versione di Matteo, dove, quando i discepoli gli domandano perché essi non erano stati in grado di compiere la guarigione, risponde: «Per la vostra poca fede» (Matteo , 17, 20a). Nel vangelo di Marco, invece, alla stessa domanda Cristo risponde che «questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera » (Marco , 9, 29).Nel dipinto di Raffaello i discepoli nella parte inferiore della composizione sembrano aver già capito questa centralità della preghiera, e mentre alcuni di essi indicano il ragazzo altri portano l’attenzione sul monte, dove il Salvatore viene trasfigurato mentre prega in preparazione all’atto d’orazione supremo, il sacrificio vespertino del Calvario.

 

IL QUADRO PIU’ BELLO DEL MONDO

Nel 1517 il cardinale Giulio de’ Medici, poi Clemente VII, per la sua cattedrale di Narbona commissionò a Raffaello la Trasfigurazione. Il pittore vi lavorò fino al sopraggiungere della morte il 6 aprile 1520. Il cardinale, anziché spedirla in Francia, trattenne l’opera a Roma facendola collocare sull’altare maggiore della chiesa di San Pietro in Montorio. Oltralpe il dipinto ci andò con Napoleone nel 1797 rimanendovi per una quindicina d’anni; fu, poi, restituito e sistemato nella Pinacoteca Vaticana.
Opera ultima di una stagione di eccezionale fervore creativo, laTrasfigurazione è dominata da una complessa elaborazione formale e da una straordinaria scioltezza esecutiva. Giorgio Vasari, alla fine della Vita di Raffaello da Urbino pittore et architetto, annota che: “Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”.

La rivelazione del Tabor, espressa con il linguaggio rasserenante e divinizzante dell’arte, getta luce sul volto oscuro della terribile nemica e assicura che di lì si giunge alla gloria. La tavola era considerata già da Vasari il testamento spirituale del pittore: “per mostrare lo sforzo et il valor dell’arte nel volto di Cristo, che finitolo, come ultima cosa che a fare avesse, non toccò più pennelli, sopragiugnendoli la morte”.
L’evangelista Matteo- parrebbe esser lui l’apostolo in primo piano a sinistra – sulla cui scorta Raffaello dipinge, colloca l’episodio della Trasfigurazione durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme, tra il primo e il secondo annuncio della passione, prima della guarigione del giovane epiletticco. La narrazione evangelica esplicita l’intenzione di Gesù di prevenire negli apostoli lo scandalo della croce e di manifestare il significato redentivo della sua morte.
In alto si osserva la teofania del Tabor e in basso la presentazione del giovane ai discepoli di Cristo in assenza del Maestro. Sul monte il Cristo sfolgorante “vestito di colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la essenza e la deità di tutt’e tre le Persone unitamente ristrette nella perfezzione dell’arte“. Il Cristo si libra tra le nubi, nel classico atteggiamento conferitogli da Raffaello, al centro di un ideale disco tracciato dai corpi di profeti e apostoli. Lo affiancano Mosè ed Elia, ovvero la legge e la profezia, ai piedi Pietro, Giacomo e Giovanni i testimoni privilegiati dell’avvenimento, in disparte – come già il patrono di Ravenna nel mosaico paleocristiano di Sant’Apollinare in Classe – i santi Felicissimo e Agapito commemorati dal martirologio lo stesso giorno della festa liturgica.
La Trasfigurazione avviene in un clima calmo, governato dalla simmetria, avvolto da un’intensa luminosità che esalta la superna coerenza delle leggi lineari, plastiche e cromatiche. Alle pendici del Tabor, l’azione è imperniata sulla statuaria donna inginocchiata in primo piano, “la quale è principale figura di quella tavola”.

 

Il convulso ma ben compaginato episodio è avvolto nell’oscurità. L’intreccio serrato degli sguardi svela l’impossibilità degli apostoli di compiere il miracolo della guarigione del ragazzo: il demonio a loro non obbedisce. I loro gesti rinviano a un’autorità più grande, al momento assente. Lo spasmo in verticale delle braccia e il volto spiritato del ragazzo, esprimono lo stravolgimento dell’ordine della creazione operato da Satana: stabilisce un rapporto diretto tra l’alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra Colui che libera e colui che incatena, tra Colui che esalta e colui che disprezza, tra Colui che dà all’uomo bellezza e colui che, invece, gliela toglie. Chi libera è il Cristo la cui umanità sul Tabor arretra per un istante scoprendone la divinità. Anche sul Golgota la sua umanità arretrerà tanto da “non esser più d’uomo il suo aspetto”, tuttavia, in forza di quel sacrificio, per la carne piagata della divinità crocifissa, l’uomo sarà liberato dallo spirito del male e il mondo riavrà la sua antica bellezza. I numerosi disegni preparatori di Raffaello dimostrano anche per questa scena una lunga e complessa elaborazione; se l’intervento degli allievi ci fu, fu solo per completare l’opera. L’enfatica gestualità, l’animazione complessa si rispecchiano nel dinamismo nuovo della composizione da cui traspare il superbo classicismo raffaellesco, e un naturalismo tragico accentuato dalla differenza netta e morbida delle ombre.
Il dipinto, sottoposto agli schianti violenti dell’ombra e della luce, impone la visione da vicino e da lontano: in chiesa avrebbe dovuto favorire il movimento di avvicinamento dei fedeli all’altare. Sviluppata verticalmente, la pala sull’altare avrebbe dovuto offrire la scena della liberazione al sacerdote che celebrava innanzi da una posizione ravvicinata, e quella della Trasfigurazione ai fedeli che più discosti contemplavano quanto il mysterium fidei velava e rivelava.
Al sacerdote ricordava il monito di Gesù circa l’incapacità degli apostoli di guarire e liberare il ragazzo epilettico: “Per la vostra poca fede”, in alcuni manoscritti per la vostra “nessuna fede”, nella Vulgata per incredulitatem. “Questa razza di demoni si scaccia con la preghiera e il digiuno” (Matteo, 18, 21). L’incredulità può ostacolare la liberazione dei fratelli. La Fede, in ginocchio, con il volto girato agli apostoli e le mani indicanti il ragazzo posseduto, mostra il compito: “Ora che il Maestro non è più con voi, a voi è affidato l’incarico di ascoltare la supplica di aiuto dell’umanità assediata dal maligno e di liberarla nel nome di Cristo secondo il suo comando”.
L’incredulità è all’origine del non esercizio dell’autorità pur essendone stati investiti. L’incredulità impedisce di vedere con gli occhi della fede la “trasfigurazione” del pane e del vino nel Corpo, Sangue, anima e divinità di Cristo. I cenni degli apostoli convogliano l’attenzione dal basso all’alto. Un tempo sostenevano la capacità visiva del sacerdote al momento dell’elevazione, facendogli scorgere nella candida Ostia il Cristo sfolgorante in cielo e invitavano i fedeli ad avvicinarsi al mistero.

 

Un’opera d’arte sacra posta in un museo, anche con le migliori intenzioni e forse più custodita, perde molto della sua capacità di parola solo per il fatto che è posta fuori del contesto per il quale è stata creata. Oggi, nella Pinacoteca, la Trasfigurazione è solo un oggetto, ancorché tra i più eccellenti, allineato tra i molti, ma privo della forza che gli proveniva dall’essere parte del mistero liturgico, dello spazio della preghiera. La delibera che giustificava il mosaico in basilica sottolineava il desiderio di avere, se non altro, una copia “del più bel quadro che abbia il mondo”. Ma ora che l’originale è a pochi passi nel museo, pare innaturale accontentarsi in chiesa della copia. Marco Agostini, L’Osservatore Romano, 6 agosto 2010.

 

TERZA DOMENICA DI QUARESIMA anno B

18 greco - la cacciata dei mercanti Madrid

  Domenico Teotocopoli, El Greco: La cacciata dei mercanti dal tempio, 1610-1614, Chiesa di San Gines, Madrid, cm. 126 x 98.

I personaggi – del pittore cretese – sono veduti, rivelati, nell’attualità umana e senza alcun scopo di piacere, ma di rivelare (Scipione Bonichi 1930). L’intensità di visione è tanto forte che supera volutamente le logiche compositive tradizionali al punto che che il grazioso, il cerebrale, il senso estetico comune spariscono. Rispetto alle versioni veneziana del medesimo tema persistono alcune componenti formali e compositive, ma del tutto diversa è la smagliante e allucinata gamma coloristica che trova il suo apice nella contrapposizione tra il rosso della veste di Cristo e il giallo del panno dell’ignudo che lo fronteggia, tra l’arco imperioso e furioso del gesto del Primo e il timido ritrarsi in difesa dell’ultimo. “La scelta del soggetto, e l’interpretazione di esso, rispondono all’intransigenza di una fede cristiana inconciliabile con qualsivoglia tentazione di profitto materiale e ch’è speculare, nell’esercizio dell’arte, al rifiuto dell’arbitrio della licenza”. (L.Puppi 1994). G.P.

Intro

L’uso delle offerte al tempio serviva a garantire che non vi entrasse niente di “impuro”. L’incidente riferito nel Vangelo di oggi dà l’impressione che all’interno del tempio stesso si potevano acquistare le offerte e anche altre cose. Come il salmista, Cristo “è divorato dallo zelo per la casa di Dio” (Sal 68,10). Quando gli Ebrei chiedono a Gesù in nome di quale autorità abbia agito, egli fa allusione alla risurrezione. All’epoca ciò dovette sembrare quasi blasfemo. Si trova in seguito questo commento: “Molti credettero nel suo nome. Gesù non si confidava con loro, “perché conosceva tutti”. Impariamo a conoscerci come Dio ci conosce! Tutta la Quaresima tende alla celebrazione del mistero pasquale. Che visione straordinaria dell’umanità vi si trova! Dio ha mandato suo Figlio perché il mondo fosse riconciliato con lui, per farci rinascere ad una nuova vita in lui. Eppure, a volte, come per i mercati del tempio, la religione ha per noi un valore che ha poco a vedere con la gloria di Dio o la santità alla quale siamo chiamati.

 

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA B

Il-serpente-di-rame

 

Michelangelo Buonarroti, Il Serpente di bronzo, affresco (585×985 cm), 15111512 circa,

decorazione della volta della Cappella Sistina, Roma, Musei Vaticani.

 Nel dipingere la volta, commissionata da papa Giulio II, Michelangelo procedette dalle campate vicino alla porta d’ingresso, quelle usate durante i solenni ingressi in cappella del pontefice e del suo seguito, fino alla campata sopra l’altare. Il Serpente di bronzo (riferito al drammatico episodio biblico in Numeri 21,1-9) è raffigurata nel pennacchio a sinistra dell’altare, e fu una delle ultime scene ad essere realizzata. Il Serpente di bronzo fa parte dei quattro pennacchi dedicati alle storie dell’AT, legate all’intervento di Dio a protezione del popolo d’Israele. Gli Israeliti, colpevoli di aver mormorato contro Dio e contro Mosè, vengono puniti con l’invio di serpenti velenosi. Mosè però, impietosito e pentito del suo accesso d’ira, forgia un serpente di bronzo (Nehustan): chiunque, morso dai serpenti velenosi, si sarebbe potuto salvare solo guardando verso esso. La scena delle punizione occupa gran parte del pennacchio a destra, con un indescrivibile tumulto di corpi intrecciati, forse a citazione del complesso marmoreo greco del Laocoonte, ed è reso ancora più espressivo dalla cromia violenta e dal frequente uso di cangianti, soprattutto nei toni rossi e gialli. Violente sono le torsioni, i volti sono trasformati in maschere urlanti di terrore e vorticosi sono gli scorci, come quello dell’uomo seminudo in primo piano, del quale si vedono le gambe piegate e lo scorcio della testa dal basso. Al centro torreggia il serpente bronzeo issato e a sinistra si trova il gruppo degli scampati, che implorano, con gli sguardi e ampi gesti, l’immagine salvifica. Molto ammirato da Vasari, l’affresco fu un prezioso exemplum per un certo filone dei Manieristi, soprattutto da Giulio Romano. In questa scena, come nelle altre immediatamente vicine, l’artista insiste particolarmente sugli scorci, in rapporto a una lettura degli affreschi che prevalentemente doveva avvenire lungo l’asse centrale dell’aula. Da un punto di vista iconologia la scena è una prefigurazione della croce di Gesù: si legge nel vangelo di Giovanni «come Mosè innalzò il serpente di bronzo nel deserto, così il figlio dell’uomo sarà innalzato» (3,14). Alcuni risparmi scuri testimoniano la condizione della superficie pittorica ante restauro.

 

QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA B

cattedrale Wurzburg Crocifisso-1

Cattedrale di Würzburg, Germania,

crocefisso, sec.XIV.

 

Stranissima rappresentazione del Crocefisso: Il Signore ha le mani staccate dalla croce e le tiene incrociate sul petto, quasi per abbracciare qualcuno. Una leggenda racconta che, durante la guerra dei Trent’anni (1618 al 1648), un soldato, entrato in quella chiesa e, visto che il Crocifisso portava una splendida corona d’oro sul capo, si fece avanti per rubargliela. Quando il ladro si trovò di fronte a Gesù e alzò la mano verso la corona, il Signore staccò le braccia dalla croce, si chinò in avanti, abbracciò il ladro e lo accostò delicatamente al cuore. e, sempre secondo la leggenda, da quel giorno Cristo non ha più allargato le sue braccia, ma ha continuato a tenerle così, come sono ora, come se volesse sempre stringere al cuore i peccatori, attirando tutti al suo amore. G.P.

 

DOMENICA DELLE PALME B

bacio di Giuda Scrovegni copia

Giotto. Il bacio di Giuda. Part. 1303-05. Affresco. Padova, Cappella Scrovegni. 

L’affresco del IL BACIO DI GIUDA parte dei dipinti realizzati da Giotto nella Cappella Scrovegni a Padova. È una scena molto animata. La composizione, basata su un intreccio di linee oblique con inclinazioni diverse, rende l’idea della confusione dovuta all’arresto di Cristo e della conseguente rissa tra sgherri e apostoli.  Le figure si muovono con assoluta libertà, girano perfino di spalle, cosa inaudita nella pittura prima di Giotto. I personaggi  hanno fisionomie ed espressioni realistiche,  sembrano dei ritratti, probabilmente ripresi dalle persone che Giotto vedeva attorno a sè. Nell’opera  si coglie una grande attenzione psicologica soprattutto per la precisione con cui vengono resi gli atteggiamenti e il comportamento dei personaggi, ognuno di loro sembra vivere una particolare emozione e ha una sua gestualità e modo di reagire. San Pietro, sulla sinistra si scaglia con violenza e si sbilancia in avanti per aggredire con il coltello l’uomo davanti a sè. L’altro, non ha tempo di difendersi nè di girarsi, sembra preso alla sprovvista e ha un’espressione di sorpresa. L’uomo incappucciato, di spalle, cerca di fermare san Pietro afferrandolo per le vesti, ma non riesce a bloccarlo. Gli altri hanno espressioni alterate, gesti concitati.  Intensissimo è il dialogo muto che si svolge tra Gesù e Giuda, al centro e in primo piano nella scena qui riprodotta. Quasi a simboleggiare il raggiro, Giuda, con un gesto ampio, avvolge Gesù nel suo mantello (giallo, colore simbolo del tradimento) e lo bacia. I due si guardano negli occhi, Gesù con un’espressione consapevole e ferma, Giuda con un’aria dubbiosa e dissimulatrice. Oltre all’eccezionale qualità espressiva Giotto crea nella pittura una rappresentazione della vita reale. Nella composizione ogni situazione è studiata e ricostruita con cura mediante un lavoro di sapiente regìa. Grande attenzione viene posta alla scena, al costume, alle interazioni tra personaggi, cercando di riprendere la spontaneità e la verità di persone e situazioni viste e vissute. I personaggi vivono nei costumi, comportamenti e condizioni degli uomini del tempo di Giotto. Così la storia di Cristo viene portata all’attualità. Quale artista è disposto oggi a cogliere tale sfida? G.P.

Approfondimento estetico

Con la scena del bacio di Giuda, l’osservatore si trova di fronte ad una scena carica di tensioni antitetiche estreme. È la quarta immagine nella serie delle dodici scene della Passione, dopo il tradimento, la cena e la lavanda dei piedi. L’ affresco rappresenta in maniera originale e sconcertante per i contemporanei, i due attori di profilo. Giotto ha elaborato una triplice differenza tra Cristo e Giuda. ciò che li separa non è solo la distanza fisica che dissocia ogni individuo da un altro; qui la distanza è un vero e proprio strappo nel continuum antropologico tra i personaggi e li traspone a livelli e luoghi dell’Essere radicalmente diversi. Abbozzando il simultaneo ritratto di Cristo e Giuda, Giotto diviene qui il pittore della “differenza antropologica”.
A un primo livello questo face à face si fronteggia l’uomo-Dio e l’uomo semplice. In questo come in tutti gli altri affreschi del ciclo degli Scrovegni, Giotto ha segnato la santità con un’aureola d’oro mettendola visibilmente a confronto col mysterium iniquitatis. Ma qui Giuda e Cristo si fronteggiano nel contrasto stridente fra la nobiltà e la goffaggine. Per illustrare questa differenza, Giotto è ricorso alle tradizioni fisionomiche diffuse; Cristo supera Giuda non solo quanto a grandezza corporea e la buona prporzione dei tratti del volto i la fronte, il centro e la base del volto rispettano nobili proporzioni-, ma anche per la nobiltà dello sguardo attento e penetrante verso Giuda. Quest’ultimo è sbilanciato, quasi aggrappato verso Cristo e si presenta con sguardo determinato e incupito. In un’interpretazione fisionomica di tale disposizione dei volti, Rudolf Kassner ha sottolineato il tratto minaccioso del profilo di Giuda, tra la fronte e il naso: “questo cattivo angolo ha di fatto un significato mostruoso nella pittura medievale: l’intelletto o le forze dell’intelletto sono mozzate dalle forze fisiche” (Kassner, R., 1997 I fondamenti della fisiognomica: il carattere delle cose, Vicenza, N. Pozza ed.). Giottoha dato a Cristo i tratti apollinei dell’ambiente cortese feudale dell’Europa occidentale; di fronte a lui Giuda presenta il carattere istintivo, astuto e plebeo dai tratti disarmonici. Ma nella pittura di Giotto la differenza decisiva tra il Cristo e Giuda non è né la distinzione metafisica, né la fisiognomica. Rappresentando il contatto oculare tra i due personaggi, Giotto crea una differenza, data dall’impossibilità di un’intima alleanza tra i protagonisti. Nell’espressione oculare, al contempo interrogativa e informata del personaggio di Cristo, l’osservatore scopre una forza aperta, creatrice, che reintegra nel suo spazio anche il traditore, a condizione che costui sia capace d’entrarci, mentre in Giuda risulta un isolamento avido che, pur con nella stretta vicinanza fisica “ volto a volto”, non può unirsi allo spazio comune. Giuda bacia così colui che non vuole incontrare nei sentimenti, e il suo baciare diviene il gesto osceno di colui che penetra nello spazio amorevole con lo spirito del ladro. Sant’Agostino si esprimeva come segue: “egli si curva in se stesso come un bandito che ruba ciò che gli è stato offerto e che gli sarebbe appartenuto se avesse saputo prendere ciò che ha”. Anche “a contatto” egli è sempre ai margini: il suo sguardo ringhia di fronte all’aura eminentemente aperta di Gesù, con la sua espressione in agguato, animalesca e malvagia; anche nella più stretta vicinanza fisica col Rabbì, Giuda agisce come un commediante infagottato nei suoi calcoli e che ha preso la distanza col suo ruolo. Se volessimo fare appello alla terminologia di Sartre, diremmo che Giuda incarna la mauvaise foi che stilla dalla negazione della libera distanza verso la propria pantomima esistenziale. Davanti all’insegnamento della libertà, quintessenza della reciprocità ispirante e dell’animazione, Giuda mostra ancora un umiliante attaccamento a se stesso che, nel rapporto con le cose, non conosce che la disposizione alla cupidigia e, davanti agli uomini, le transazioni manipolatrici. In sintesi il messaggio iconologico sottostante la scena del bacio di Giuda è: il dio venduto. Giotto mostra qui lo “squarciamento dell’amore” vittima di un interesse avvilente che presume di sé come interesse superiore. Questa lacerazione è resa in modo drammatico tra due volti che si fronteggiano, occhi negli occhi. Cristo e Giuda si scambiano sguardi: quello del Cristo, affonda lo sguardo nel disanimato, tutto incluso nei propri occhi. Giuda, rimane lì come una cosa impenetrabile, estranea. E’ il tuffo nel buio a tormentare la figura dell’uomo-Dio. Gino Prandina.

DOMENICA DI PASQUA B

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Paolo Bortoli, Victimae paschali laudes, acquarello su carta, 70×50, 2015.

 

L’acquerello di Paolo Bortoli, pittore, è stato eseguito appositamente per la prima pagina della Voce dei Berici, settimanale della Diocesi vicentina in occasione della Pasqua 2015. Riprendendo l’inno gregoriano, il pittore si applica alla traduzione in sequenze, compenetrate in aree circolari, degli episodi della Settimana santa: la violenza che si raccoglie attorno al Messia, la cattura, il viaggio verso la croce, l’uccisione e il versamento del Sangue, la sepoltura nella tomba nuova. L’ostia-vittima è il pane puro della Pasqua. Antico e nuovo sacrificio apre alla vita nuova del Risorto. La luce solare fende le ombre ancòra del mattino. Ciò che dell’Esodo rimane e del sacrificio dei primogeniti è ora l’orizzonte luminoso della Terra Promessa. Gino Prandina

Biografia

Paolo Bortoli, anno 1965, pittore, vive e lavora a Costabissara (VI). Insegnante a Valdagno, da molti anni dedito alla pittura. È un attento osservatore del panorama culturale ed artistico italiano. Collabora con il Direttivo delle Associazioni artisti per l’Arte Sacra e con il Gruppo vicentino La Soffitta. Ha esposto in varie personali d’arte nel Vicentino e concorsi in Italia. Ha realizzato opere d’arte per chiese e celebrazioni liturgiche; ha illustrato testi di carattere religioso.

 

 

DOMENICA II DI PASQUA B

Caravaggio, incredulità di >Tommaso

Incredulità di san Tommaso, Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1600-1601, Bildergalerie, Potsdam (D).

Questa tela fu dipinta da Caravaggio intorno al 1601 per il Marchese Vincenzo Giustiniani per la galleria di dipinti del suo Palazzo ed è un sopraporta, orizzontale, a mezze figure di circa cm 150 x 100. La tela poi fu venduta varie volte nel corso dei secoli, ed infine, dopo ulteriori vicissitudini legate agli eventi della Seconda Guerra Mondiale, pervenne nell’attuale collezione della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam. Nel 2001 a Roma è stata proposta al pubblico italiano in una bellissima mostra dedicata alla ricostruzione dell’antica collezione Giustiniani.

Il dipinto raffigura l’apostolo Tommaso mentre infila un dito nella ferita del costato con altri due apostoli che osservano la scena. Qualche commentatore ha voluto identificare i due personaggi (oltre a Gesù e Tommaso) negli apostoli Giovanni e Pietro, affermando così che nel quadro vi è l’immagine della Chiesa nei suoi vari aspetti (carisma-istituzione).

Le figure sono disposte in maniera tale da formare una croce o una spirale, con le tre teste degli apostoli incastrate l’una con l’altra. La luce proviene solo da sinistra e illumina la fronte corrugata dei tre uomini che osservano con attenzione e stupore la ferita. L’estremo realismo della scena scandalizzò non poco il committente marchese Vincenzo Giustiniani. Ma per immaginare l’effetto che questo quadro di Caravaggio fece nella Roma di 400 anni fa basti ricordare che del quadro si contano 24 copie e fra i copisti gente del calibro di Guercino e Rubens. In realtà il quadro appare di una semplicità assoluta e di una perfezione compositiva impeccabile: al centro della composizione i 4 personaggi le cui teste formano un rombo, suggeriscono la vita di una comunità sospesa fra fede e incredulità. L’asse orizzontale delle mani di Gesù e dell’apostolo che crede solo a ciò che vede, condensa in folgorante sintesi i dubbi e l’ostinazione dell’uomo con l’amore disponibile e paziente di Dio.

La curvatura delle schiene degli apostoli e del fianco di Gesù li raccoglie in un arco quasi perfetto. Il fondo scuro e spoglio di ogni dettaglio superfluo, concentra l’attenzione sull’essenziale. A parte questa sapienza costruttiva, che cosa conferisce al quadro l’incredibile fascino che emana? La luce in primo luogo che, come sempre nei quadri del grande artista, gioca un ruolo unico facendo emergere i personaggi dall’oscurità: mentre il volto di Gesù rimane nella penombra, la luce permette di cogliere su quello degli apostoli compagni di Tommaso come “il dubbio fosse attecchito anche nei loro cuori, pur senza avere la sfrontatezza dell’incredulo”. In secondo luogo colpisce la mano di Gesù che afferra quella di Tommaso e la guida a frugare fin dentro la ferita quasi a fugare ogni dubbio: l’apostolo, spaccone e inquieto quando non c’è Gesù, si rivela timido e riluttante in sua presenza, tanto da dover essere aiutato dal Signore a compiere il gesto sfrontato della verifica. Infine Caravaggio avvicina la scena allo spettatore e mette l’episodio alla sua portata quasi a sottolineare che la cosa ci riguarda tutti e ognuno di noi;  quasi a invitare chi guarda ad entrare dentro la scena stessa fino a farsi co-protagonista. E siccome il Caravaggio è il pittore della realtà con questo bellissimo quadro riesce a farci capire che quello che lui vuol raccontare non è per niente fantastico o visionario, ma “l’accaduto, nient’altro che l’accaduto” (Roberto Longhi), perché il Vangelo prima ancora di essere dottrina o insegnamento è fatto, e evento verificabile. Caravaggio ha una percezione così reale del fatto, da immaginare che l’invito verbale di Gesù all’apostolo avesse un suo naturale sviluppo nel gesto del Risorto che prende e guida la mano di Tommaso. Gesù, il più luminoso di tutti ha il pudore di chi teme di dare l’impressione della rivincita. Resta uno scandalo questa ferita mortale. Ma i discepoli devono guardarla a lungo. Non possono rituffarsi nell’idea di un Dio impassibile, di un Dio che non soffre l’avventura umana, di un Dio che è dalla parte dei bravi, dei forti, dei fortunati. Non possono coprirgli la ferita e vergognarsi di essa. Nessuno dei tre apostoli alza la testa in direzione della luce: la Risurrezione non è da guardare con gli occhi, ma è “da provare sulla pelle….” I protagonisti sono in primo piano, a portata immediata di sguardo. Per di più sono ad altezza dell’osservatore, per cui chiunque sia di fronte a quella tela diventa il quinto personaggio della scena, come fosse un terzo apostolo, che ha bisogno anche lui di conoscere la verità e quindi di credere: anche lui si trova a chinare lo sguardo, incredulo e stupito, sul centro dell’evento. La mano di Gesù che prende quella di Tommaso e la guida verso la ferita. Iconograficamente non è una novità, perché già Dürer in una sua famosa incisione aveva rappresentato così l’episodio, andando quasi al di là del racconto evangelico. Ma in Dürer quel gesto si perdeva nella miriade di particolari. Qui invece è proprio il centro della scena: Caravaggio ha una percezione così reale del fatto da immaginare che l’invito verbale di Gesù a Tommaso avesse un suo naturale sviluppo in quel gesto così pieno di tenerezza. Incoraggiato da Gesù, che gli ha letto nel cuore, Tommaso può liberare la sua curiosità. Il dito non si limita a sfiorare la ferita, ma vi entra dentro come a voler eliminare definitivamente ogni ombra di dubbio.  Ecco il particolare su cui Caravaggio fa convergere tutti gli altri, occhio dello spettatore compreso: il dito di Tommaso tocca un uomo vivo, s’addentra nella carne viva: Caravaggio spazza via, quasi con brutalità, ogni connotato visionario dalla scena. E lo sguardo sgranato e teso dell’apostolo sotto la fronte aggrottata segue il dito come se avesse calcolato che il riscontro di due sensi è meglio di uno. E la conferma viene dagli altri due apostoli. Quello al centro è lo stesso modello usato nella Crocefissione di san Pietro e come Nicodemo nella Deposizione della Vaticana. Non hanno avuto la sfrontatezza di Tommaso, ma si vede benissimo dai rispettivi sguardi che il dubbio era attecchito anche nel loro cuore: Gesù era risorto davvero con il suo corpo o quello che avevano davanti era un fantasma? Così i loro occhi fremono nell’attesa: altro che preoccuparsi di rimproverare Tommaso per la sua incredulità. Caravaggio svela e racconta tutte le dinamiche umane della scena. Non lascia scampo a ipotesi alternative, e declina il suo quadro al tempo presente. Come infatti gli era accaduto nella Vocazione di Matteo, veste i protagonisti della vicenda con abiti contemporanei, mentre lascia Cristo con un mantello. È un corto circuito quasi impercettibile che gli serve per dare una verità ancora più diretta e comprensibile all’episodio raccontato: l’episodio accadde quel giorno di tanti secoli prima in Palestina, ma proprio perché realmente accaduto può essere riscontrabile, toccabile con mano, anche oggi. G.P.

 

DOMENICA III DI PASQUA B

franguelli L’immagine di Maddalena Franguelli, artista contemporanea, raccoglie in forma simbolista una serie di riferimenti evangelici alle apparizioni del Risorto. La composizione, che denucia una sovrapposizione di piani e di eventi, raccoglie attorno al Risorto discepoli e discepole dopo la Pasqua. Il riferimento al cibo che Gesù chiede ai discepoli, il piatto di pesce arrostito che gli viene offerto, non solo è prova che non si tratta di un’allucinazione, ma si riferisce alle moltiplicazioni dei pani e dei pesci prepasquali. Il riferimento eucaristico già presentato nelle lunghe pericopi evangeliche, ora si arricchisce della relazione fra il Risorto e il pane spezzato. Pesca abbondante, cibo, carne e sangue offerti in memoriale: Gesù guida i discepoli di ogni tempo al faticoso passaggio dal vedere al guardare, o meglio, dal vedere al credere. G.P.

Maddalena Franguelli, 2012, Gesù appare ai discepoli, colori ad acqua, colori per vetro su tela, cm 50×70

 

 

DOMENICA IV DI PASQUA B

 galleria d'arte moderna ROMA_ arturo martini_ il pastore

Arturo Martini. Il Grande Pastore, terracotta, Galleria d’arte moderna Roma.

Sul tema del Pastore Martini negli anni ’30 realizza vari soggetti, alcuni precisamente intesi a raffigurare l’iconografica cristiana (come il gesso conservato a Palazzo Thiene Vicenza). Il soggetto, sviluppato una prima volta nel 1923, denuncia un’intensa l’intenzionalità espressiva evocando nell’Artista il sogno di un’umanità originaria e un ritorno ai grandi valori dell’arcaismo. Come sempre il linguaggio è essenziale, e il pastore stesso viene reso con intensa analisi psicologica, quasi un’ immedesimazione totale col soggetto. Successivamente, come per questa figura, la modellazione è sorvegliata e accurata, addirittura raffinata e attenta a rendere i particolari più significativi. Una mano impugna il bastone, e su questo si poggia l’altra mano e il mento e l’attenzione si concentra sul volto dall’espressione estatica.

Tutta la gamma dei sentimenti è resa con densità e delicatezza, denunciando un’indagine patetica e insieme rinascimentale. Qui si direbbe una pausa, una sospensione, in cui il pastore non solo guarda il suo gregge, ma il pensiero si volge oltre. Anche in quest’opera tutto sembra in attesa d’un qualcosa di indefinito e di indefinibile, con una intonazione lirica, poeticamente serena. G.P.

 

DOMENICA V DI PASQUA B

Renato Arici, ilIl-Vignaiolo copia vignaiolo, 2013,

olio su tavola – 85 x 102.

 

L’anziano artista presenta una visione rarefatta del reale … una scelta frutto di maturità espressiva nella rinnovata ed incessante ricerca stilistica riscontrabile nel tratto, nell’uso dei colori, nei chiaroscuri. I soggetti affiorano dalla sensibilità dell’artista che si traduce in atmosfere silenziose di mondi passati. È una poetica espressionista semplice e profonda, intima e allo stesso tempo universale e senza tempo. Un ritorno al passato, ma attenta e scrupolosa nell’osservare con l’anima l’intensità del ricordo. Così l’immagine del vignaiolo che sembra scorrere di tralcio in tralcio con fare minaccioso. In realtà non è uno sprovveduto quanto invece tutto assorto e prudente nel suo lavoro in vista del frutto abbondante. G.P.

 

 

DOMENICA VI DI PASQUA B
Jesus_washing_Peter's_feet (1)

Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi a Pietro, 1856, olio su tela, Tate mus.

L’ARTE

La tumultuosa accelerazione avvenuta in Inghilterra in età vittoriana con il pieno sviluppo della rivoluzione industriale non mancava di un rovescio della medaglia: massiccio inurbamento, povertà ai limiti della sussistenza, diffusione del lavoro minorile e della prostituzione. Era inevitabile che nella coscienza del Paese da più parti si levassero voci di denuncia e istanze volte a recuperare quanto pareva irrimediabilmente cancellato dagli sbuffi trionfali delle macchine a vapore. Il movimento pittorico dei Preraffaelliti si colloca in un articolato contesto riformistico intendendo la pittura come riscoperta della bellezza come redenzione. L’opera di M.Brown proviene dalla Tate Gallery di Londra, particolarmente ricca di opere del periodo. Il tema religioso è certamente interessante nelle opere preraffaellite per cogliere inclinazioni e accenti della sensibilità contemporanea. Non è facile addentrarsi nelle poliedriche sfaccettature dell’epoca (interessato anche dall’High Church Movement tendente al cattolicesimo), espressione della cosiddetta «via media» tra cattolicesimo e Riforma. È evidente una diffusione di cultura biblica derivante dalla familiarità con il testo, e lo sforzo di reinterpretazione e attualizzazione dei modelli iconografici. Istanza che suscitò reazioni anche negative nei contemporanei. Ancora oggi è di forte l’impatto derivante da quest’opera intitolata “Gesù lava i piedi di Pietro (1852-56)” di Ford Madox Brown. C’è una complessa e variegata gamma di sfumature emotive che appare sui volti dei discepoli: dallo stupore degli uni allo uno sgomento profondo e incapace di comprensione in altri; dalla smorfia corrucciata e contrariata di Pietro allo stupore affascinato di Giovanni. Tale coraggiosa interpretazione del testo evangelico suscitò molti commenti e contrasti fino a veri e propri violenti attacchi; famoso quello di Charles Dickens. La regina Vittoria richiese di vedere privatamente alcune opere a motivo del clamore che suscitavano. Scelsero di chiamarsi «Preraffaelliti» facendo riferimento alla pittura italiana che precede il Rinascimento e Raffaello. In particolare quest’ultimo venne identificato come il pittore che sanciva il confinamento dell’espressione artistica in formule accademiche lontane dalla realtà. Un impoverimento che avvertivano presente negli stessi ambienti artistici dell’Inghilterra loro contemporanea, e a cui intesero reagire ispirandosi alla natura in modo più genuino. Si riunirono in una confraternita animata da J. E. Millais, D. G. Rossetti e W. Hunt, con l’obiettivo di liberare i propri pennelli dagli schemi imposti dal gusto comune e dalle istituzioni artistiche vittoriane. Di fatto il movimento si colloca in una posizione che apre in diverse direzioni: la pittura di paesaggio (Gerusalemme e la valle di Giosafat, 1854-55 di Thomas Seddon), la pittura di soggetto storico in M. Brown, o letterario in D. G. Rossetti). Comune denominatore resta l’intento di individuare e indicare valori per un tentativo di riscatto che ebbe tra le sue manifestazioni anche il socialismo umanitario dello stesso W. Morris.